Poesie e racconti
di Marco Celati - lunedì 30 marzo 2015 ore 18:54
IL VARCO
Caldo. La notte senza stelle scendeva umida e appiccicosa, come un sudario. Sul letto, impossibile dormire.
Le note dell'ennesima manifestazione sguaiata organizzata dalla pro loco, quelle sagre paesane, senza qualità, che attirano tutti senza piacere a nessuno, rimbombavano ancora nella testa. Il molto onorevole Merendoni, un po' meno onnipresente da un pezzo in qua, aveva inaugurato.
L'aria era spessa, odorosa di piretro. Un furgone ingaggiato dal Comune, dopo l'ulteriore défaillance dell'ufficio sanitario, straordinariamente amministrato dall'impagabile dr. Schiapparelli, lo stava spargendo nottetempo per le strade.
La temibile zanzara tigre, reduce dai successi africani, aveva fatto la sua comparsa in città, mietendo vittime.
Come nella vicina Bosnia, i più colpiti erano i bambini, soprattutto i mini calciatori che al vecchio comunale disputavano un torneo.
Partita momentaneamente sospesa; fuggi fuggi generale sugli spalti. Si contano fino a ottanta punture sulle gambe del piccolo portiere: i referti dell'arbitro e del medico al pronto soccorso.
Gli "animalisti" della città si opponevano alle emissioni, in soluzione oleosa o acquosa? dell'insetticida, ritenute nocive per uomini e animali e, per la zanzara tigre, avevano sostanzialmente proposto un domatore.
Al cinema all'aperto davano "L'Ultimo dei Mohicani". Bello spazio, in villa, sotto l'argine. Peccato quella impalcatura per concomitanti lavori in corso e quella rete sfrangiata,al posto del muro di cinta, caduto l'anno della caduta del muro di Berlino e, probabilmente per questo, mai più rialzato. E forse proprio gli ultimi dei mohicani ululavano sopra l'argine, preparandosi ad assalire il cinema.
Afa. Impossibile prendere sonno. Le lenzuola, un velario fastidioso.
Mi sono alzato e vestito leggero e sono scivolato nella notte ormai inoltrata. Le strade deserte, la città sopraffatta e silenziosa.
Sulla statale transitavano le ultime auto, squarciavano appena il buio con i fari e frusciavano via, allontanandosi.
Ho percorso un po' a caso il viale dei pini, fino al nuovo stadio. Seguivo un rumore che si avvertiva nel silenzio, basso, intermittente. Cos'era?
Giunto al muro di cinta, il rumore si faceva più forte. Più avanti, lungo la rete, c'era un varco. Sono entrato: ecco cos'era! Sul campo da gioco erano rimaste in funzione le pompe annaffiatrici.
Sono salito sulle gradinate; nella notte i getti d'acqua si spargevano in senso rotatorio, frusciavano nell'oscurità, rischiarati a volte dal bagliore delle auto lungo la strada.
Ho pensato al refrigerio che mi rendeva quello spettacolo abusivo. Preparano il campo per la squadra cittadina: giovani che corrono lungo le fasce, verso la porta avversaria, per la gioia del goal, l'abbraccio dei compagni, l'urlo della folla.
Poi mi è venuto a mente il campionato. Su questi campi di provincia, al massimo si pareggia, spesso a reti inviolate. Si comprano allenatori per questo e squadre catenacciare.
E ho pensato a quest'acqua dimenticata e sprecata per tutta la notte, come quando, di pomeriggio, vidi uno della società di atletica lavare l'auto con la pompa dello stadio e mi dette fastidio.
Lo spreco dell'acqua rimanda alle immagini della siccità, dei paesi dell'altro mondo, dei bambini che si vedono morire di sete e di fame alla televisione, durante le ore dei pasti e si cambia canale. Classico moralismo di sinistra.
Ho chiuso gli occhi, come per cambiare immagine; li ho riaperti e, dal varco nella rete, mi sembrava di intravedere delle figure. Ma sì, passavano, correvano lungo la pista e un gruppo, apparso un pallone, si è messo a giocare nel campo.
Ridevano, mentre attraversavano gli schizzi d'acqua, a piedi scalzi, mi pareva. Erano gli scugnizzi del quartiere? Erano scuri, ma il buio poteva ingannarmi.
Ho pensato: se i ragazzi del mondo potessero giocare così e avere acqua per bere e tanta da sguazzarci!
E tutti i sinceri sportivi e democratici ad applaudire in santissima pace, fuori dell'assillo che lega gli uomini alla loro parte.
Sugli spalti stava salendo intanto una folla variopinta e silenziosa. Ho creduto di scorgere i miei cari e gli amori che si sono persi, ma è stato un attimo, poi non li ho visti più.
Esiste dunque, un varco, "una maglia rotta nella rete", un passaggio, un anello che lega particolare e generale, dove protesta e passione possano avere sfogo e dove tornano le cose, le forme solide e care ad incontrarci, dove taluno "qual volle si ritrovi". Fuori dal calpestio degli anni, verso un corso che segua lo sviluppo dei nostri desideri.
Ho chiuso gli occhi, li ho riaperti. La stanza della camera era ferma nella notte. Un brivido mi avvertiva che stava raffrescando, un chiarore che la nottata stava per finire.
Il varco, i bambini scuri, l'acqua, i miei cari veleggiavano lontani, come tutti i sogni e i pensieri che passano.
Marco Celati
Pontedera 6.7.93
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LA VITA
E poi mi chiedo in fondo
che cosa è mai questa vita,
cosa rimane del tanto o del poco,
di quanti avemmo in sorte d'incontrare,
di amare e di perdere e ancora,
che senso ha questa fatica
di vivere, di essere ogni giorno
presenti a noi stessi e ogni notte
giacere assenti nel sonno o nei sogni.
Sono più i morti che i vivi al ricordo
e popolano la memoria, si aggirano
per le stanze, riemergono dal vissuto
degli anni come fantasmi consueti:
i nostri cari, le persone che furono
parte di noi, che ci diedero vita,
che furono tutto per essere niente,
annullarsi nell'opera, accompagnarci
fino alla fine di esistere e lasciarci.
E quanti ci conobbero e conoscemmo:
amici o semplici frequentatori
del nostro vivere quotidiano,
improvvisate o fugaci presenze,
passioni mai del tutto sopite,
cos'è stata la vita per voi e per noi,
cosa abbiamo seminato e raccolto,
dove siete rimasti, a che secca,
a che riva desolata approdati?
La discesa ci porta ed ognuno
segue il corso, asseconda il suo passo,
rallenta la corsa o precipita
in fondo e scompare per sempre
alla vista, agli affetti e allora perché
tutto questo dolore, cos'è valso
gioire, illudersi o fingersi illusi?
Forse la paura della morte,
più della vita, ci dà vita e viviamo.
Vorrei urlare, chiamarvi:
dove siete, che fate?
Restate vivi, con noi,
ancora un po',
riparate dal tempo
e dal male che incendia
e bruciate di vita
e di amore
per sempre!
2014
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LETTERE DAI PALAZZI SUBURBANI
Vedi i palazzi suburbani, le case popolarissime,
come grandi cetacei riversi, balene spiaggiate
nella campagna che si è fatta più recente città:
qui vivono uomini e donne, famiglie, persone,
popolazioni diverse, giunte da altrove e riunite
dagli eventi, dal bisogno di vivere e lavorano
o no e vivono o no: chi studia, chi scrive lettere,
chi cucina, chi rassetta la casa o l'abbandona.
Trascina il vento fogli, giornali, buste di plastica
del supermercato nel verde rado del condominio,
intorno ai casamenti dove i bambini giocano
e rincorrono una palla o una storia e ragazzi
e ragazze escono in cerca d'amore e di vita.
Vedi le finestre che si affacciano il giorno
e si accendono la sera e sul retro lo scenario
dei panni stesi che asciugano e le auto, i motori
che assediano il parcheggio e la strada maestra
nella periferia urbana dei quartieri e dell'anima.
E si leva un odore di cibo, di pranzi o di cene
che avvolge le scale e persiste e senti le voci,
le grida, il parlare e i litigi, il rumore consueto,
avverti il frastuono o il silenzio del convivere
e un giorno di questi alla sua donna
un inquilino da un andito dire:
mi strappo il cuore,
mi strappo il cuore dal petto,
mi strappo il cuore dal petto e lo do a te.
1990 / 2015
Questa poesia riporta date lontane tra loro, perché apparteneva e dava il titolo ad una raccolta che ho smarrito. Tutta la cartella è andata persa nei vari traslochi e passaggi che hanno segnano la mia vita, non so quando, né come o tantomeno perché.
Le cose si perdono, si dimenticano: è così e basta. E fosse il male delle cose..! A volte non è nemmeno un male, a volte sì. Nella fattispecie la letteratura italiana non ne avrà certo risentito. A me è dispiaciuto e dispiace ancora. Ricordavo solo le ultime frasi che avevo tradotto in versi: mi erano state raccontate da un amico che le aveva udite davvero in un palazzo dove aveva abitato. Ne avevo fatto versi di una specie di invocazione liturgica e così li ho fedelmente riportati. Il resto è riscritto di sana pianta, dietro memorie e nuove suggestioni. Chissà com'era l'originale? Sicuramente migliore. Si sa, la prima volta è sempre irripetibile.
Marco Celati