Maradona
di Libero Venturi - domenica 06 dicembre 2020 ore 07:30
A proposito di prodigi venuti “da cielo in terra a miracol mostrare”, è morto Diego Armando Maradona, “el dios” del calcio. Aveva sessant’anni. È stato il più grande calciatore di fine ‘900, suo il gol del secolo contro l’Inghilterra ai campionati in Messico nel 1986, quando condusse l’Argentina alla conquista del titolo mondiale. Il primo gol contro gli inglesi l’aveva fatto di mano, fingendo di colpire di testa: “la mano de dios”, appunto. Anche gli dèi simulano quando giocano a calcio. Per la cronaca agli inglesi un gol di mano l’aveva già segnato il nostro Piola, tanto tempo prima, ma era un’amichevole. Alla fine Argentina due, Inghilterra zero: le Falkland, per gli argentini le Malvinas, erano vendicate. Basta leggere “Maradona sí, Gualtieri no”, un racconto di Osvaldo Soriano, per averne, in breve, un’idea.
Eppure questa divinità del calcio, incarnata in un “pibe” povero, poi diventato “de oro”, venuto al mondo per “la gioia del popolo” come e più di Garrincha, come Garrincha è morto solo. Forse non derelitto e povero in canna come il calciatore brasiliano, ma piegato ugualmente dalla sua sregolatezza, grande quanto il suo genio. Milioni a manifestare per santificarlo in Argentina, dove esiste, fondata a Rosario, addirittura una Iglesia Maradoniana e a Napoli, dove ha giocato vincendo due scudetti. Il popolo si è riconosciuto in questo dio del calcio, così pagano e fragile, antimperialista e internazional-popolare, che parlava con capi e papi e al Papa polacco si permetteva di ricordare i bambini poveri di questa Terra. Papa Francesco, argentino come lui, lo considerava un poeta del calcio e gli aveva regalato un rosario. Dieguito, piccolo e gracile, era divenuto muscoloso da ingrassare, assecondando una vita di eccessi e, da povero che era, talmente ricco da evadere il fisco. Ma “el Diez” o “el D10s” è morto solo e chissà quanto solo: non c’erano i suoi figli, legittimi e illegittimi, non c’era il suo medico. E ora s’indaga su quella morte, come per un ribaltato senso di colpa. “Triste, solitario y final”, avrebbe detto Philip Marlowe, tradotto da Soriano.
A me non piaceva Maradona, nell’Olimpo del calcio preferisco Pelé che si è saputo condurre fino ai giorni nostri. Si apprezzano degli uomini sia il cuore che la testa. Ma come non subire il fascino dell’esaltazione e della maledizione. Quella che, al di là della diversità di stile, a torto o ragione, ci intriga a favore del grande Modigliani, un bohémien, che dipingeva in poveri studi le sue modelle allungate nel disordine di una vita breve, rispetto all’altrettanto grande Magritte, un surrealista, il sabotatore tranquillo della realtà, iscritto al partito comunista belga, che pitturava le sue tele in giacca e cravatta, nel salotto di casa, mentre la moglie preparava il pranzo.
Perfino Saviano perdona a Maradona le frequentazioni dei camorristi napoletani, spacciatori di cocaina di cui era dipendente. Ed è toccante l’intervista rilasciata a Kusturica in cui il calciatore confessa la sua dipendenza chiedendosi chissà cosa avrebbe potuto realizzare, quanto grande avrebbe potuto essere ancora, senza l’uso e l’abuso di droga. Malinconia del passato e del futuro.
Tutti possono giocare a calcio, di qualsiasi peso o altezza e oggi di qualsiasi paese o etnia. È un gioco bello e semplice ed è il circo di tutti: poveri e ricchi. “Un gioco capitalista, perché si richiede sempre il rendimento, l’affanno di vincere, la superiorità. Un gioco socialista, perché c’è bisogno dello sforzo di tutta la squadra, del mutuo aiuto per ottenere il trionfo, ossia una vita migliore.” Lo dice Osvaldo Bayer, che ha scritto del calcio argentino. Il calcio, lasciatemi citare Montalban, è fatto da chi ha “usurpato il ruolo degli dei -che in altri tempi guidarono la condotta degli uomini- senza arrecare conforti soprannaturali, ma soltanto la terapia delle grida più irrazionali”. Il calcio è lo strumento adoperato per sentirsi “dèi che gestiscono vittorie e sconfitte dalla comoda poltrona di cesari minori”. E che offe a giovani estremisti ultras una fede a portata di mano, l’illusorio, spesso violento, senso epico della vita. Il calcio è un business e una consolazione. Appartenenza, paese e nazione. Troppo. Quel calcio ora è immerso nella penombra: ha perso la sua stella spenta più brillante. È orfano della sua terrena, perduta, corrotta divinità: il sacrificio è compiuto. Come in un rosario, come un mistero glorioso e doloroso. Partita finita, ben oltre i supplementari. “Pulvis et umbra sumus”. Restano la leggenda e il mito, superiori alla vita. Buona domenica e buona fortuna.
Libero Venturi
Pontedera, 6 dicembre 2020
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Sono state prese in prestito e citate, più o meno a proposito, le seguenti opere: “Il centravanti è stato assassinato verso sera” di Manuel Vázquez Montalban, “Fútbol, Storie di calcio” e “Triste, solitario y final” di Osvaldo Soriano, di conseguenza, “Il lungo addio” di Raymond Chandler. Infine “Fútbol, Una storia sociale del calcio argentino” di Osvaldo Bayer. Ah, dimenticavo, Dante, la “Vita Nova” e Orazio, che strazio.
Libero Venturi