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giovedì 12 dicembre 2024

PENSIERI DELLA DOMENICA — il Blog di Libero Venturi

Libero Venturi

Libero Venturi è un pensionato del pubblico impiego, con trascorsi istituzionali, che non ha trovato niente di meglio che mettersi a scrivere anche lui, infoltendo la fitta schiera degli scrittori -o sedicenti tali- a scapito di quella, sparuta, dei lettori. Toscano, valderopiteco e pontederese, cerca in qualche modo, anche se inutilmente, di ingannare il cazzo di tempo che sembra non passare mai, ma alla fine manca, nonché la vita, gli altri e, in fondo, anche se stesso.

​Lettera sul tempo

di Libero Venturi - domenica 12 aprile 2020 ore 07:30

Dice, “chi ha tempo non aspetti tempo”. Che è un modo di dire accreditato, un proverbio dettato dalla cosiddetta saggezza popolare perché sul tempo “ci sarebbe da dicci”, come appunto si dice dalle nostre parti. C’è chi, tra metafisici e fisici, sostiene che addirittura non esista o, quantomeno, non sia lo stesso a seconda di certe curvature spazio temporali che più ne leggo e me le spiegano e meno ne capisco. Ma lasciamo stare. I detti o le dicerie popolari sul tempo hanno diverse varianti. Ad esempio, “il tempo passa e Berta ‘un si marita”. E, in poesia, che dire dello struggente «Carpe diem» oraziano? Cogli il giorno, «quam minimum credula postero». Che sarebbe come “non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi”. Più o meno. Meno poetico di sicuro. Ma la vita, si sa, è più sbrigativa e prosastica. Fin troppo, alle volte. «Panta rei», tutto scorre, sosteneva Eraclito, almeno secondo Platone. E non lo diceva solo del tempo, ma più in generale del trasformarsi continuo delle cose, contrapponendo la sua teoria del divenire alla concezione dell’essere statico di Parmenide. Aveva ragione Eraclito o, comunque, faceva più simpatia.

Anche Seneca, tempo fa, fu fra i primi ad occuparsi del tempo, per consigliarne il miglior uso al poeta Lucilio, avendo tempo egli stesso per prendersi il tempo di un’epistola breve, ma significativa in materia di tempo. Che, come in questa frase, spesso è ripetitivo. I corsi e i ricorsi storici ad esempio, ma non divaghiamo.

“Dammi retta Lucilio, dedicati un po’ a te stesso e tieni da conto tutto per te il tempo che finora ti lasciavi portar via o comunque perdevi. È proprio così, credimi: il tempo ci viene tolto o sottratto, quasi a nostra insaputa, oppure ci sfugge non si sa come. E la cosa più indecorosa è perderlo per trascurata leggerezza”. Così Seneca. Ed è bellissimo in latino: «Dum differtur, vita transcurrit», mentre rimandiamo, la vita scorre via. È come scrive Orazio a Leuconoe, “dalla candida mente”, una delle amanti del poeta latino: «Dum loquimur, fugerit invida aetas», mentre parliamo, sarà fuggito il tempo invidioso. “Invida”, non è “inesorabile” come in molte traduzioni. No, è proprio astioso, invidioso di noi, quasi che ci odiasse! Ma allora, il tempo è un macellaio oppure un galantuomo? Probabilmente nessuna delle due cose, noi l’abbiamo inventato così come lo conosciamo e lo misuriamo, ma a lui siamo indifferenti. Passa e va. Penso io. Che però a Pontedera fa -faceva- le casse da morto.

Trovami «qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori», chi apprezzi il giorno, chi capisca che ogni giorno si muore un po’, chiede Seneca a Lucilio. Perché in questo sbagliamo: pensiamo che la morte ci sia davanti e invece in gran parte è dietro di noi. Ci incalza. Possiede già tutta l’esistenza trascorsa. Come Ungaretti: «La morte/ si sconta/ vivendo», ma forse rovesciando il concetto. “E dunque tu, caro Lucilio, tieni stretta ogni ora, dipenderai meno dal futuro, se avrai in mano il presente”. «Omnia, Lucili, aliena sunt», tutto ci è estraneo, «tempus tantum nostrum est», soltanto il tempo è nostro, appartiene a noi. Noi che mettiamo in conto le inezie ottenute, “ma non ci sentiamo in debito per il tempo che ci viene concesso, eppure è l’unica cosa che non possiamo restituire”. Dice Seneca.

Quanto a me, così largo di consigli, scrive ancora, tengo il conto di quello che spendo, ma non posso dire di non perdere niente. Però sono in grado di rendere conto della mia povertà. “Capita anche a me, come alla maggior parte delle persone cadute in miseria, non per loro colpa, notare come tutti comprendano e nessuno soccorra”. Ma, secondo me, dice, “non è povero chi si fa bastare il poco che ha”. Seneca è lo stesso che sostiene nel “De beneficiis”: «Hoc habeo, quodcumque dedi», questo ho, quello che ho dato. Ripreso da D’Annunzio, “Io ho quel che ho donato”, che però sa più di ego munificente e debordante con tanto di cornucopia e scritta all’ingresso del Vittoriale degli Italiani.

Seneca conclude la lettera consigliando a Lucilio di avere cura delle sue cose e cominciare a farlo di buon tempo, “perché, come sanno i nostri vecchi, non rimane che una parsimonia tardiva alla fine e in ultimo non resta tanto il minimo, quanto il pessimo”. Infine scrive «Vale», come usavano i latini. In fondo alla frase sta per “addio” e secondo me è bellissimo, non è un semplice e formale commiato e nemmeno l’aulico “ave”, sottintende un augurio e un saluto insieme. Ti saluto, stammi bene. Gli spagnoli l’usano ancora per dire “va bene”.

Lucio Anneo Seneca era nato intorno al 4 a.C. in Spagna, a Cordoba, che fu poi lontana e sola per Garcia Lorca. Venuto a Roma si dedicò agli studi della retorica seguendo le orme del padre, ma ben presto fu attratto dalla filosofia che divenne l’impegno costante della sua vita. Da giovane soffrì di asma. Come Che Guevara! Fu senatore e, per le sue critiche morali, fece incazzare Caligola, l’imperatore Gaio Giulio Cesare, che lo condannò a morte, ma fu graziato per intercessione di un’amante dell’imperatore stesso. Nel 41 d.C. sotto l’imperatore Claudio fu vittima di un intrigo politico ed esiliato in Corsica. Solo nel 49, Agrippina, seconda moglie di Claudio, lo fece tornare a Roma per affidargli l’educazione del giovane figlio, il principe Nerone. Che era meglio se restava in Corsica. Il principe divenne imperatore e Seneca fu suo consigliere. Ma Nerone si allontanò dagli insegnamenti e dalla guida morale del maestro che, sfiduciato e disgustato, rassegnò l’incarico, ritirandosi a vita privata per dedicarsi agli studi e alla meditazione. Nerone, un carattere incendiario, non la prese bene e quando nel 65 fu sventata la congiura ordita contro di lui da Gaio Calpurnio Pisone, incluse Seneca tra i congiurati, anche senza prove del suo coinvolgimento, e gli ordinò di uccidersi. E Seneca, confortato dall’amore della moglie Paolina e dalla presenza degli amici, si uccise tagliandosi le vene. Oggi si direbbe un suicidio assistito. Eutanasia non direi, perché la morte gli fu imposta dal tiranno. Gli ultimi drammatici momenti della sua vita, descritti da Tacito, rivelano la dignità, la nobiltà d’animo, la coerenza, l’integrità e la grandezza dell’uomo. Come si vive e come si muore.

Seneca scrisse molto. Fra le sue opere i “Dialoghi”, trattati di argomento filosofico: la provvidenza, la coerenza del saggio, l’ira, la vita beata, il ritiro, la serenità dello spirito, la brevità della vita, la consolazione. I trattati “Sulla clemenza” e “Sui benefici”, che avrebbero dovuto essere una guida morale per Nerone il quale però clemente non fu, tantomeno benefico. Scrisse “Le questioni naturali” che trattano di astronomia, geografia, fisica ed etica. Compose nove tragedie di argomento mitologico. “Le lettere a Lucilio” rappresentano la completezza del suo pensiero: in forma epistolare e colloquiale Seneca espone profondi argomenti filosofici in maniera breve e pacata. Scrive lui stesso: «le dissertazioni preparate ed esposte davanti a un pubblico comportano più strepito e meno intimità. La filosofia è un consiglio buono: nessuno dà un consiglio ad alta voce». Cioè l’opposto della retorica.

E, insomma, insomma, fra un discorso e l’altro siamo arrivati a Pasqua. Dice, “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”. Con il coronavirus il proverbio è diventato “Natale con i tuoi, Pasqua con chi puoi”. Oppure “se puoi”. O, addirittura, “Natale con i tuoi, Pasqua non puoi”. Passeremo una Pasqua e una Pasquetta così così, come potremo, in ansia per i nostri cari, ma non vengono meno la speranza di risorgere, pure per chi non crede, e la voglia di rinnovarsi che anche questa Primavera frizzantina sparge nell’aria, come un anti virale. E, proprio in questo periodo che il tempo sembra dilatarsi e vita e morte si inseguono nei comunicati, la lettera di Seneca sul tempo, che ci giunge da lontano, parla ancora alla nostra mente e al nostro cuore e sarebbe almeno da sperare suggerisca anche qualcosa per i piccoli e grandi proponimenti del futuro. Per vivere meglio il nostro tempo. Buona Pasqua, buona domenica e buona fortuna.

Libero Venturi

Pontedera, 12 Aprile 2020

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Nota per la comprensione del testo. Le frasi in corsivo tra le virgolette « » sono quelle che riportano il testo latino di Seneca. Quelle non in corsivo contenute tra le virgolette “ “ sono la loro traduzione in italiano. Il resto sono sintesi o personali osservazioni che, a proposito del tempo, lasciano quello che trovano.

Nota ad uso esclusivo dei non pontederesi, d’altronde “nessuno è perfetto”. Mi avvarrò di un testo pubblicato su Qui News, a proposito di “Penso io”, dell’amico Marco Celati, illustre vanesio.

A Pontedera nell'attuale Piazza della Concordia, dove ora c'è il circolo socialista, vicino a dov'era un tempo l'Orto del Rosati, tristemente famoso per i bombardamenti e l'eccidio dell'ultima guerra mondiale, c'era la falegnameria del Sig. Belli, un uomo rosso di capelli e democristiano di fede, gran lavoratore. Il Belli per tirare avanti l'azienda e la famiglia usava appuntarsi i lavori che gli venivano richiesti o che lui stesso si procurava presso i clienti, in genere concittadini. E ne prendeva molti.

Belli ho questa sedia da riparare. Ci penso io, diceva, registrando la consegna. Belli, l'armadio di camera ha un'anta rotta. Ci penso io e segnava sul taccuino. Belli, me lo fai il tavolo di sala? Ci penso io.

A tutti, immancabilmente, rispondeva così. E così quello divenne il suo soprannome: "Penso io". Bisogna sapere, però, che il nostro bravo falegname di lavoro faceva un po' di tutto: anche le bare o, come da noi vengono più allegramente chiamate, le casse da morto. E nell'elenco dei lavori, nello stabilire le priorità, a quelle per forza doveva dare la precedenza. La morte porta fatalmente a compimento la vita e, quando arriva, non c’è più tempo. Per tornare al tema. È un'incombenza non rinviabile. Così tutti gli altri impegni di lavoro, restavano più indietro e venivano rimandati dal Belli, detto "Penso io", più avanti nel tempo. Ed è per questo che a Pontedera, città operosa, di ruvida simpatia e disarmante ironia, quando si sente qualcuno dire, magari con un po' di sopracciò: "Ci penso io" gli si risponde: "Penso io, fa le casse da morto!"

Libero Venturi

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