Acciaio
di Libero Venturi - domenica 20 giugno 2021 ore 07:30
La Corte d'Assise di Taranto ha condannato a 22 e 20 anni di reclusione i fratelli Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell'Ilva, nel processo chiamato “Ambiente Svenduto” sull'inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico tarantino. La pubblica accusa aveva chiesto 28 anni per Fabio e 25 per Nicola Riva. Rispondono di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari e all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Disposta anche la confisca degli impianti, nel frattempo passati prima attraverso una gestione commissariale e poi acquisiti da Arcelor Mittal, società anonima con sede in Lussemburgo, colosso industriale mondiale nel settore dell’acciaio del plurimiliardario indiano, Lakshmi Mittal. Nel 2018 ha raggiunto un fatturato di 76,03 miliardi, con un utile netto di 5,14 miliardi di dollari e 209.000 dipendenti. Numerose le sedi nel mondo e in Italia. Dal 2005 al 2018 la società è stata proprietaria anche dell’ex Magona di Piombino, successivamente lo stabilimento è stato ceduto alla Liberty Steel, altra società internazionale nel settore dei metalli con sede centrale a Londra, 30 mila dipendenti, oltre 200 sedi nei quattro continenti e una diffusa problematicità aziendale. Il suo proprietario è Sanjeev Gupta, altro magnate di origine indiana. Mentre in India - sia detto per inciso - non hanno sufficienti quantità di vaccino anti Covid con variante Delta per la popolazione.
Tre anni e mezzo di reclusione sono stati inflitti anche all'ex Presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. I PM ne avevano chiesti 5. Vendola è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull'allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far "ammorbidire" la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall'Ilva. Assennato è stato condannato a 2 anni per favoreggiamento.«Mi ribello a una giustizia che calpesta la verità - scrive Vendola - una sentenza che colpisce chi non ha mai preso un soldo dai Riva, che ha scoperchiato la fabbrica, che ha imposto leggi contro i veleni. La condanna per me e Assennato una vergogna, non fummo complici dei Riva, ma coloro che ruppero lunghi silenzi e una diffusa complicità. Combatterò contro questa carneficina del diritto e della verità. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata». In effetti, per dirla tutta e citandolo, anche a me pare una brutta “narrazione”. Più che giustizia per Vendola è stata applicata una linea giustizialista, tagliando corto, senza le sfumature di giudizio necessarie a comprendere chi si adopra ancora per difendere insieme ambiente e lavoro.
Alla lettura della sentenza hanno invece esultato gli ambientalisti e i genitori tarantini in presidio. Tra gli altri, ci sono anche rappresentanti del movimento Tamburi Combattenti e delle associazioni che aderiscono al Comitato per la Salute e per l'Ambiente: Peacelink, Comitato Quartiere Tamburi, Donne e Futuro per Taranto Libera, Genitori Tarantini, LiberiAmo Taranto e Lovely Taranto. Sono circa mille le parti civili. Tra queste c'è il consigliere comunale della lista “Taranto Respira”, Vincenzo Fornaro, l’ex allevatore - ora coltiva canapa - che subì l'abbattimento di circa 600 ovini contaminati dalla diossina. «E' il giorno - osserva - in cui si stabilirà dopo tredici anni chi ha ragione tra un manipolo di pazzi sognatori che continuano a immaginare un futuro diverso».
La confisca degli impianti dell'area a caldo dell'ex Ilva di Taranto, disposta dalla Corte d'Assise, non ha per ora alcun effetto immediato sulla produzione e sull'attività del siderurgico di Taranto. La confisca degli impianti è stata chiesta dai PM, ma essa sarà operativa ed efficace solo a valle del giudizio definitivo della Corte di Cassazione, mentre adesso si è solo al primo grado di giudizio. Gli impianti di Taranto, quindi, restano sequestrati, ma con facoltà d'uso agli attuali gestori della fabbrica. Gli impianti pugliesi sono infatti ritenuti strategici per l'economia nazionale da una legge del 2012, confermata anche dalla Corte Costituzionale. Per area a caldo si intendono parchi minerali, agglomerato, cokerie, altiforni e acciaierie. Nel passaggio degli impianti dall'attuale proprietà di Ilva - in amministrazione straordinaria - all'acquirente, cioè la società Acciaierie d'Italia tra ArcelorMittal Italia e Invitalia, è previsto il dissequestro degli impianti come condizione sospensiva. E il passaggio per ora è stabilito entro maggio 2022.
«Siamo commossi, per quelli che abbiamo perduto e per quelli che qui ancora si ammalano. È stata una strage, lunga decenni, per il profitto. Oggi lo Stato italiano riconosce le sofferenze dei tarantini, riconosce gli abusi che si compiono per l'acciaio». Così il sindaco Dem di Taranto, Rinaldo Melucci - imprenditore, un’agenzia marittima di famiglia - dopo la lettura della sentenza del processo, a cui ha assistito presentandosi in aula con la fascia tricolore. «Questa sentenza - aggiunge - è un macigno sulle azioni del Governo, non saremo un Paese credibile e giusto se all'interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, a partire dall'ex Ilva, non avvieremo una vera transizione ecologica».
E il Presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, politico e magistrato, ha commentato: «La giustizia ha finalmente fatto il suo corso accertando che i cittadini di Taranto hanno dovuto subire danni gravissimi da parte della gestione Ilva, facente capo alla famiglia Riva. La sentenza è un punto di non ritorno che deve essere la guida per le decisioni che il Governo deve prendere con urgenza sul destino degli impianti. Gli impianti a ciclo integrato, che hanno determinato la morte di innumerevoli persone, tra le quali tanti bambini, devono essere chiusi per sempre e con grande urgenza per evitare che i reati commessi siano portati ad ulteriori conseguenze e ripetuti dagli attuali esercenti la fabbrica. L'attività industriale attuale a ciclo integrato a caldo va immediatamente sospesa e si deve decidere il destino dell'impianto e dei lavoratori».
Fin qui la cronaca fedele, ora il pensiero divergente. Lavoro e ambiente entrano drammaticamente in conflitto e prevale l’ambiente. La natura e la salute umana non possono essere sacrificate alle esigenze produttive. Sacrosanto. Però, a me scusate non sembra così semplice, sento che c’è un però e bisogna che lo dica. Questo conflitto tra ambiente e lavoro è proprio ineluttabile e insanabile? Non lo so, ma voglio sperare proprio di no. Voglio credere che molto dipenda dal modello di sviluppo, dalla sottomissione alle “logiche” illogiche del mercato e del profitto. E per tali “logiche” illogiche intendo non solo quelle private, ma anche quelle a cui si piega lo Stato o a cui lo Stato non riesce a sottrarsi e non è in grado di regolare.
Il Centro siderurgico di Taranto fu costruito a partire dal 1959 con il coinvolgimento del Governo italiano, dell’IRI e della Finsider. Fu scelto il Mezzogiorno per segnarne la crescita e fu scelta Taranto per la sua collocazione, per le sue risorse e la sua manodopera qualificata. Nel 1965 fu il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat a inaugurare gli stabilimenti. E Papa Paolo VI, la notte di Natale del 1968, celebrò la messa di mezzanotte nelle acciaierie dell’Italsider. Il quartiere Tamburi dove sorgevano gli impianti, crebbe e divenne un paese di 18 mila abitanti dove risiedevano i lavoratori delle acciaierie. Nel 1980 un altro Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, volle pranzare con gli operai nella mensa. Allora il IV Centro Siderurgico di Taranto sfornava il 79% della produzione totale di Italsider e gli occupati erano 43 mila, tra diretti e indotto. Poi la crisi e la globalizzazione, l’insorgere della coscienza ambientale e le lotte contro l’inquinamento. Gli esposti alla Magistratura, i provvedimenti restrittivi, la sentenza. Parallelamente i passaggi di mano in mano e la riduzione del personale: oggi sono “solo” 8 mila i dipendenti diretti e circa 3 mila quelli dell’indotto. Come la Piaggio non nei tempi d’oro, ma d’argento sì. Acelor Mittal intanto tiene una condotta “schizofrenica” sembra che lasci, poi ci ripensa. E Invitalia non sottoscrive l’aumento di capitale previsto.
Insomma c’è davvero “un futuro diverso” per tutto ciò e quale sarà? Perché i casi sono due. O si chiude la fabbrica e quelle migliaia di lavoratori e quelle imprese ad essa collegate trovano un’altra via basata sulle risorse ambientali, agricole, turistiche, sui servizi, sul commercio, sperando che siano capaci di sostenersi ed autoalimentarsi a prescindere dal reddito derivato dalle attività produttive. Ma sarà sufficiente per garantire economia e lavoro o resterà la ragione di “un manipolo di pazzi sognatori”? Me lo chiedo e ancor di più ogni volta che la televisione inquadra quell’allevatore che ricorda il sacrificio delle sue pecore a causa dell’inquinamento derivato dalla fabbrica. Mi viene a mente il sacrificio degli innocenti: dei seicento animali, come delle migliaia di uomini. Basterà quel nuovo futuro invocato ad esempio - per restare in ambito popolare - nel film “La bella vita” di Virzì? La valorizzazione della costa e del mare a Piombino, al posto delle acciaierie che ancora oggi pongono problemi pesanti alla città, ai lavoratori e alle imprese. Ma del film a me resta impressa la scena dell’operaio che, perso il lavoro, non riesce più a vivere e si uccide. Si muore di lavoro e della sua assenza, quando invece si dovrebbe viverne. E penso al libro di Silvia Avallone, “Acciaio” - ne hanno tratto anche un film - che racconta la vita incasinata delle famiglie dei lavoratori, delle loro figlie, dei figli e un incidente mortale sul lavoro. Qualche piombinese che conosco non ci si ritrova: troppo romanzato e forse sarà vero. Non si sa mai, però, se per giudicare è meglio stare fuori o dentro le cose. E allora mi torna in mente il più robusto “La dismissione” di Ermanno Rea, sull’abbandono dell’Ilva di Bagnoli e la scomparsa della Napoli operaia, sullo sfondo incombente della camorra. Il manovale, divenuto tecnico specializzato, Vincenzo Buonocuore si impegna ad attuare il suo “capolavoro”. Anche gli operai della Piaggio, mi raccontava il sindacalista Luciano Boschi, un tempo dovevano fare il “capo di lavoro” per essere assunti. Ma quello di Vincenzo alle acciaierie di Bagnoli sarà smontare pezzo per pezzo, con perizia operaia, i macchinari del suo reparto da consegnare ai cinesi a cui erano stati venduti. E che sarebbero presto venuti a portarseli via per sempre.
Questi diversi scenari rappresentano, a loro modo, la contraddizione che ci interroga. Come la frase “assolutamente sì”, una parola fin troppo in voga oggi è “resilienza”. Va pronunciata almeno una volta al giorno, per crederci. Noi di sinistra si faceva con “socialismo”, pensando che, a furia di ripeterlo, si avverasse da sé. Resilienza nella tecnologia dei materiali, descrive “la resistenza fisica a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto”. Indica cioè la capacità dei materiali di riprendere il loro stato originale, dopo una deformazione. Infatti il suo contrario è “l’indice di fragilità”. Per l’acciaio, la resilienza, andrebbe anche bene, per gli uomini no. O non è detto, benché il suo significato si sia esteso anche alla psicologia. Perché gli uomini cambiano, non restano nel loro stato originale. Ma, insomma, come dicevo, i casi sono due: o c’è una via del tutto nuova che passa dalla chiusura e dalla dismissione delle acciaierie e che Dio ce la mandi buona e senza vento, oppure c’è un’altra possibilità, ammesso che anche questa sia davvero possibile: produrre acciaio senza procurare inquinamento. In maniera “verde”. Esiste un modo? Davvero non lo so. Se già esistesse sarebbero ancora più irresponsabili coloro, privati e pubblici, che non l’hanno cercato e messo in atto. Produrre senza inquinare e fare della green economy e della circular economy una grande opportunità per creare reddito da redistribuire. Oppure la nostra crescita o decrescita, il benessere o malessere di noi italiani, si baserà sul denaro che cerca di autoalimentarsi, sulla finanza, su un debito pubblico crescente e irrestituibile o su un risparmio privato altrettanto crescente, ma infruttuoso. E sull’aumento delle diseguaglianze. Buona domenica e buona fortuna.
Libero Venturi